giovedì 27 dicembre 2012

Ripartire

L'Italia è un'enorme, bellissima palla che i padri dei padri dei nostri padri hanno calciato in avanti con la forza impressionante della Bellezza, tanto da imprimerle un moto inerziale che difficilmente potrà mai esaurirsi del tutto. Un'ulteriore spinta è stata impressa nel dopoguerra dai padri costituenti e dalla generale voglia di riscatto del paese, e grazie ad essa siamo giunti fino agli anni '80, gli anni della gioia dopo il buio del terrorismo, gli anni più sguaiati.
Poi ci siamo fermati.
È vero, sentiamo dire tutti i giorni che siamo al palo, che siamo in recessione eccetera eccetera. Ma io parlo di un altro tipo di blocco. È qualcosa di più subdolo, qualcosa che non ha a che fare con la classe politica, quasi sempre accusata di essere la causa primaria di ogni male.
Il blocco di cui parlo appartiene a noi, e noi soltanto, e la classe politica che ci ritroviamo ne è la diretta conseguenza.
È un'idea che è maturata in me lentamente nel corso di questo stranissimo anno di governo tecnico e che sta esplodendo in questo assurdo periodo pre-elettorale, e i recenti viaggi che ho fatto in Svezia e in Olanda non hanno fatto altro che corroborarla. Proverò a spiegarla.
Sono nato in un momento strano, perché ho vissuto senza grossi problemi la mia infanzia e sono cresciuto credendo di vivere in un paese florido e pieno di opportunità. Poi, all'alba degli anni '90, è iniziata la crisi. L'ho toccata con mano, con mio padre che cambiava posto di lavoro ogni due mesi prima di trovare finalmente un impiego stabile. Questo perché le fabbriche dove lavorava chiudevano, o meglio, venivano delocalizzate in paesi più economici. Iniziava quella cosa ancora sconosciuta chiamata globalizzazione.
Da allora sono passati vent'anni, e sono stati vent'anni di crisi. Io però non ho vissuto una vita da crisi, o almeno non mi è parso: ci sono stati momenti difficili — a volte molto difficili — ma la mia famiglia l'ha sempre sfangata, forse per fortuna, o forse perché in certi momenti si sono prese decisioni dure, ma necessarie (e ciò sta accadendo anche in questi giorni).
Guardandomi attorno, però, ho l'impressione fortissima che troppa gente, in questi vent'anni di crisi, abbia vissuto facendo semplicemente finta che questa crisi non esistesse. Parlava di crisi, si lamentava della crisi, ma non conduceva una vita da crisi. Per me "vita da crisi" ha una connotazione ben precisa: niente più soldi per fare la spesa. Il resto per me è secondario. Forse la mia è una visione parziale della crisi, ma penso che il momento difficilissimo a cui siamo arrivati derivi in gran parte dal fatto che sia scoppiata la bolla della "non-crisi" in cui troppa gente ha vissuto in questi vent'anni, una bolla che certamente le barzellette di un certo imprenditore sceso in campo per il paese che ama — a suo dire — hanno contributo a mantenere ben gonfia. Ma non solo quelle. Perché per me il punto fondamentale è che all'interno di questa bolla gli italiani sono rimasti fermi. Immobili. Pietrificati. E non si sono accorti di quanto stava cambiando il mondo al di fuori della bolla.
Basti pensare alla tecnologia: probabilmente abbiamo vissuto, o stiamo vivendo, uno del balzi in avanti più formidabili della storia. Siamo passati da grossi cassoni ronzanti e impolverati ad apparecchi sottilissimi con cui possiamo fare letteralmente qualsiasi cosa: controllare l'estratto conto, prenotare un volo, acquistare cose vendute in un negozio australiano. In un futuro non troppo prossimo con quegli stessi apparecchi pagheremo alle casse dei nostri negozi. È vero, ancora molta gente non ha accesso a questa tecnologia, ma lo sarà sempre di più, e comunque il punto è che esiste, e condiziona irrimediabilmente ogni aspetto della nostra vita, che piaccia o no. E così in vent'anni siamo passati dal vivere nel nostro piccolo quartiere nella nostra piccola città nel nostro piccolo paese chiamato Italia, al vivere in una rete connessa con tutto il mondo o quasi. È un cambiamento epocale, vertiginoso, come l'invenzione del treno a vapore o dell'automobile, ed è un cambiamento velocissimo, a cui è difficile star dietro.
Il problema è che l'Italia, secondo me, non ci ha nemmeno provato.
Noi eravamo nella nostra piccola bolla. Noi eravamo ancorati in qualche modo alle certezze del passato e stavamo bene. E la crisi era sempre causata di qualcun altro. Lo stato spargeva soldi a pioggia per comprare macchine nuove ed eravamo felici, mentre fuori dalla bolla altri svuotavano le città dalle auto e le riempivano di biciclette. Le fabbriche continuavano a produrre cose e a dare lavoro a molta gente e noi eravamo felici, ovviamente, ma fuori dalla bolla qualcun altro iniziava a fare le stesse cose in maniera più rapida ed economica, e nessuno se ne è accorto. Si aprivano centri commerciali mentre altrove si aprivano negozi on-line dove era possibile comprare le stesse cose a metà prezzo. Per vent'anni in Italia non si è fatto altro che cercare di mantenere in vita un passato destinato inevitabilmente a sparire, e in questa politica di "mantenimento" tutti hanno la loro parte di colpa. Tutti, nessuno escluso, dai governi che si sono succeduti a noi, il "popolo", un popolo che legge poco e che si fa plasmare come pongo dal saltimbanco di turno. Nessuno ha capito che bisognava andare avanti, invece che guardare continuamente indietro. Nessuno ha capito — e capisce — che un certo tipo di industria è destinato a sparire dall'Italia, nonostante le proteste, e nessuno ha capito che l'Italia ha un altro tipo di ricchezza su cui contare per il futuro: il suo meraviglioso territorio pieno di diversità, l'arte, la cultura. Sono queste le forze inerziali di cui siamo dotati. Siamo nel più grande museo a cielo aperto del mondo, ci rendiamo conto di questo? Quanta ricchezza, quanto lavoro può dare un territorio come il nostro? Non lo sappiamo, perché non gli abbiamo mai dato fiducia. Noi consideriamo un successo il prolungamento di una cassa integrazione.
Poi si possono accusare i governi, i corrotti, le banche e tutto il resto, ma se vogliamo davvero uscire da questo momento dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. Dobbiamo abbandonare alcune certezze e cercarne altre. Dobbiamo capire il cambiamento e prendere atto della sua inevitabilità. Potrà non piacerci, potremo odiarlo, ma c'è e non si ferma, ed è da questo punto fisso che bisogna ripartire per elaborare un'idea di sviluppo diverso, e dobbiamo farlo soprattutto noi, il popolo. È molto difficile, perché siamo usciti in maniera traumatica dalla nostra bolla, ma dobbiamo farlo, altrimenti non ci sarà governo, provvedimento o patrimoniale che potrà salvarci.

5 commenti:

  1. Stavolta Alessandro, sono in totale dissenso da te.
    Non mi aspettavo, devo sinceramente dirti, che saresti finito anche tu nella trappola del pensiero dominante che parte dal fatto che la realtà è un treno su cui siamo seduti senza il nostro consenso e che noi non stiamo alla guida e così l'unica possibilità è tentare di adattarci alla situazione ineluttabile in cui ci troviamo.
    Ciò tuttavia è falso, scegliere si può sempre. Uscendo di metafora, è la globalizzazione che ci vuole imporre questa sfrenata corsa verso un mondo sempre più competittivo e sempre più consumatore di risorse.
    Chi di noi, mi chiedo, sa come è fatto uno qualsiasi di questi aggeggi diabolici che influenzano così tanto la nostra vita quotidiana? Senza una conoscenza almeno di massima di ciò che costituisce parte della nostra stessa vita, siamo come burattini che non conoscono0,neanche di cosa sono fatti i fili con cui ci manovrano.
    Dire basta si può, dire no alla globalizzazione si deve, dire no a questa corsa consumistica non solo si può ma si deve, non creiamoci facili alibi del tipo appunto che reagire sia impossibile, questo è semplicemente falso.

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    1. Forse non è chiaro, ma io non credo che lo sviluppo sia legato al consumo, anzi! Pensiamo alle auto: da una parte si chiede uno sviluppo più sostenibile ed ecologico e dall'altra si lotta per mantenere in piedi fabbriche che producono auto. Non ne abbiamo più bisogno, ne abbiamo troppe! Bisognerebbe lavorare alla conversione di quelle fabbriche verso qualcos'altro, e non lottare in eterno per un prodotto destinato a sparire!
      Riguardo alla globalizzazione, io non dico che sia una cosa bella e condivisibile, ma noi ci siamo dentro fino al collo, e senza nemmeno rendercene troppo conto. Basta avere un computer o una maglietta prodotta in Cina per esserci dentro. Pensaci: noi stiamo comunicando grazie a un servizio gratuito che fa un sacco di profitti vendendo le nostre "abitudini di navigazione" alla pubblicità! È una cosa negativa? Probabilmente sì, ma noi la stiamo usando, ci siamo dentro. Il problema enorme è che alla globalizzazione del mercato non si accompagna alla globalizzazione dei diritti, ed è proprio in quel senso che bisogna combattere e pungolare la politica: ma lottare contro la globalizzazione, mi spiace, ma non credo abbia senso, non più almeno.

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  2. Il più grande museo a cielo aperto del mondo. Ma non siamo svedesi ...
    Un post che condivido in pieno

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  3. E' il richiamo - così intendo io - al senso del dovere per la gran parte della popolazione che mi pare cosa degna!

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  4. Io odio la globalizzazione perlomeno quella economica. Non si possono paragonare economie che crescono grazie agli schiavi (Cina) ed altre rispettose di diritti sociali conquistati in anni di lotta in cui vige la schiavitù. Ai prodotti cinesi andrebbe messo un dazio.
    Non è un luogo comune quello di additare i politici ladroni come i veri colpevoli dello sfascio. Il voto di scambio ha contraddistinto gli ultimi anni di storia e i governi sono stati eletti con i voti di evasori politici commercianti e liberi professionisti. Questo è il vero partito in Italia, i furbi, quelli che hanno un SUV per il padre, uno per la mamma, la smart per il figlio, la villa in città, 2 case al mare ed una in montagna ma dichiarano 7000 euro l'anno e prendono anche il buono libro per il figlio.
    Il nostro oro, petrolio, diamanti ... potrebbe essere il turismo dal momento che siamo al 1° posto nel mondo per arte e paesaggistica.
    Ed invece Pompei se ne cade a pezzi e grazia alla globalizzazione, a Monti ed a questo schifo di Europa dei banchieri, siano alla cinesissazione italiana ed europea avendo abbattuto lo stato sociale ed il costo del lavoro che è arrivato quasi a 0.
    Il popolo è ancora troppo fesso. Continua a votare ed eleggere i boia che gli tagliano la testa.
    Ciao

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