mercoledì 21 agosto 2013

Impronte

Soundtrack: Summertime Sadness, by Lana del Rey

C'erano due serie di impronte sulla sabbia. Viaggiavano parallele come binari, sincronizzate come i movimenti dei danzatori sul ghiaccio, e non si scontravano mai. Nemmeno si toccavano. Puntavano a un obiettivo, questo era certo, ma non mi era concesso di sapere quale fosse. Le seguii sperando di riuscire a scoprirlo, o perlomeno di intravederlo, di leggerlo in quel percorso apparentemente senza ostacoli, quattro piedi scalzi e privi di incertezze. Le pietre non esistevano in quella lunghissima spiaggia solitaria, congelata in un'eterna bonaccia. Non c'erano pioggia né tempeste, non c'era il vento. Solo un sospiro che non riusciva a spazzare via le impronte.
Camminai molto tempo. Non so dire quanto, perché quella teoria infinita di passi tutti uguali mi ipnotizzò. Più di una volta dovetti fermarmi in preda a capogiri. La storia che quelle impronte mi stavano raccontando mi dava alla testa. Sembrava una storia semplice, lineare, di quelle che quando un film o un libro provano a spremerci una trama quel che viene fuori è un brodino insipido pieno di banalità e luoghi comuni. Forse perché ancora nessun regista o scrittore ha capito che l'unico modo per raccontare una storia d'amore è installare una telecamera dietro agli occhi dei protagonisti e intingere il pennino nel sangue contenuto nei loro ventricoli, altrimenti nulla di quel che viene mostrato e descritto è vero, nulla si saprà delle guerre infinite e tormentate riconciliazioni che avvengono nell'arco di un secondo, nulla se non un leggero fremito di una mano o lo sbattere nervoso di una palpebra. E così io provavo a scrutare quelle vicende nell'intervallo tra un passo e l'altro, sentivo i granelli appena agitati dalla brezza sussurrare la loro testimonianza quasi inintellegibile, e infine vedevo qualcosa. Bastavano quei piccoli frammenti che mi era concesso vedere a provocarmi ondate di sbornia incontrollabile, un misto intollerabile di felicità sparse, malesseri, tensioni e isole di serenità che mi squartava in mille pezzi. Ma resistevo. Volevo vedere la meta verso cui stavano puntando.
Le impronte correvano verso il mare. Non c'era null'altro che acqua, terra e cielo. Camminai fino a raggiungere la sabbia scura e compatta del bagnasciuga. Lì le impronte si facevano più nette e definite, ma solo per un breve tratto. I passi, fino a quel momento dritti e sicuri, divergevano fino a separarsi. Spostai lo sguardo da destra a sinistra e vidi i passi ormai solitari proseguire lungo il bagnasciuga, sempre più lontani gli uni dagli altri.
Sapevo cos'era successo. Era stato il mare, la sua infinita incertezza. Nel mare non ci sono impronte da seguire, ma correnti che possono cullarti o spazzarti via. Nel mare se ci si tiene per mano troppo a lungo si affoga. Nel mare non devi avere continuamente bisogno di certezze, semplicemente devi averle. Devi sentirle, annusarle assieme all'aria salata. Devi sapere che, anche se è fuori dal tuo campo visivo, l'altro c'è, pronto a tuffarsi in apnea per riportarti a galla. Devi sentirne il profumo sopra la puzza più violenta, sopra il crampo più lancinante. Devi sentirlo sempre. E così si giunge a destinazione. Qualsiasi destinazione.
Mi tolsi la maglietta pronto a tuffarmi. Una folata di vento mi fece rabbrividire. Guardai il mare, poi la strada da cui ero venuto. Guardai la mia fila di impronte spazzata ora dal vento.
Reindossai la maglietta. Quel giorno era troppo freddo per il mare.

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