giovedì 24 agosto 2017

La falce ha il filo smussato (Juanìn)

La donna con la falce aveva già parlato qui.

Finalmente ce l’ho fatta.

Non è stato per nulla facile. A dirla tutta è stato uno dei lavori più complicati degli ultimi tempi, considerando anche l’età e la condizione del soggetto. Ma aveva la fibra forte, la fibra di chi è sopravvissuto alla guerra, alla fame, al dolore per aver visto tanti fratelli morire prima di lui. Con uomini di tale vigore la mia falce ha la stessa efficacia di un coltello di plastica. È stata un’operazione lunga, estenuante, carica di sofferenza per tutti, ed essere riuscita alla fine a strappare dal suo cuore tanto resistente l’ultimo scampolo di esistenza è stata una liberazione anche per me.

Ora però lo guardo con gli occhi non più offuscati dalla fatica e dalla frustrazione e quello che vedo è irriconoscibile: la pelle è bianca e tesa come un lenzuolo sugli zigomi, le labbra sono sottilissime, livide. Dov’è finito l’uomo che ho imparato a conoscere in questi anni? Dov’è l’uomo che le persone attorno a lui ora – fratelli, sorelle, nipoti – hanno amato? Il corpo adagiato sulla bara è il vero fantasma, non l’anima possente con cui ho fatto amicizia.

Sono passati diversi anni dal nostro primo incontro. Fui chiamata il giorno stesso in cui varcò la soglia della casa di riposo. La sua mente già perdeva pezzi di vita, mentre il corpo, pur smagrito dalla malattia, si manteneva forte. Andavo a trovarlo tutti i giorni, stavo accanto a lui mentre davanti ai suoi occhi si avvicendavano parenti e amici che non riconosceva più. Lui sapeva chi fossi, ci eravamo appartati nell’angolo più recondito dei suoi pensieri e mi ero presentata. Sono venuta a prenderti, gli dissi. Fai pure, disse lui, prima di lanciare una bestemmia. Ma era più semplice a dirsi che a farsi, l’ossessione per la vita a tutti i costi del mondo occidentale ha reso il mio lavoro incomprensibile, devastante. La mia falce consumata non recide più con un colpo secco: sbrindella, consuma. La sofferenza è indicibile, e io continuo a ripetermi che la colpa non è mia, che sono questi sciagurati umani a torturare i loro stessi fratelli per soffocare sensi di colpa mal sopiti, ma guardarmi allo specchio dopo tanto dolore diventa sempre più difficile. Diventò inevitabile quindi conoscerlo, mentre cercavo di portare a termine il mio lavoro. Mi fece conoscere la sua grande famiglia, i fratelli e le sorelle che adorava, la sua vita piena di incidenti e rimorsi che lo stavano uccidendo più della mia falce. Tra poco ci sarà modo di rimediare a tutto, gli dicevo, ma dentro di me provavo una rabbia atroce.

Poi mi parlò del vino: la festa collettiva della vendemmia, la danza per spremere gli acini e ricavarne il succo dolce che iniziava a fermentare sotto i piedi. Mi parlò del rito dell’uccisione del maiale, un giorno sacro in tempi di fame devastante, delle leccornie che i suoi genitori riuscivano a ricavare da una materia così povera. Infine mi parlò della sua squadra del cuore, il cui nome riusciva ancora a risvegliare la sua coscienza ormai perduta.

Ora posso posare la falce e gli uomini possono piangere. Ma io non piango. Sono felice per aver compiuto la mia missione e perché, da qualche parte, i suoi rimorsi saranno finalmente dimenticati… probabilmente davanti a una bottiglia di vino.


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